miércoles, 9 de diciembre de 2009

A Ciudad Juárez non si muore per caso


Chiara Calzolaio

A Ciudad Juárez non si muore per caso. Questo il primo, atroce, pensiero che passa per la testa a chiunque abbia conosciuto un po’ da vicino la realtà della città alla frontiera tra Messico e Stati Uniti.

A una settimana dall’omicidio di Jesús Alfredo Portillo Santos, ventisettenne studente di disegno grafico all’Università Autonoma di Ciudad Juárez, attivista, genero di Marisela Ortiz Rivera, militante di una delle associazioni più conosciute al mondo di familiari di vittime dei femminicidi di Ciudad Juárez, Nuestras Hijas de Regreso a Casa, sento l’urgenza di tracciare dei fili, di sottoporre ad una riflessione comune alcune questioni e dire che la verità ufficiale non mi convince.

Il 29 novembre scorso Jesús Alfredo Portillo Santos è stato ammazzato da un commando di sicari mentre si dirigeva ad un negozio di quartiere, non lontano da dove viveva. I giornali locali riportano la dinamica dei fatti: due giovani che stavano scappando da un commando si sono rifugiati in un alimentari, i sicari hanno sparato provocando la morte dei due ragazzi ma anche di Jesús Alfredo e di un altro passante. Loro, e centinaia di altri uomini e donne finiti negli ultimi due anni sotto il fuoco della guerra tra e contro il narcotraffico, sono “vittime dell’insicurezza”, di quell’aumento esponenziale di violenze e criminalità che la città ha vissuto dai primi mesi del 2008, quasi in coincidenza con l’arrivo dell’esercito a Ciudad Juárez.

Dello stesso parere il rettore dell’Università Autonoma di Ciudad Juárez che, in una conferenza stampa a poche ore dall’accaduto, ha rivolto un appello alle autorità perché risolvano i crimini e rendano giustizia a chi, come Alfredo, “si è trovato nel luogo sbagliato, nel momento sbagliato”. Dal dicembre 2008, otto tra studenti e professori della sua istituzione sono stati uccisi, senza dimenticare le due giovanissime studentesse (Lidia Ramos Mancha e Mónica Janeth Alanís Esparza, di 17 e 18 anni) che risultano ancora scomparse.

Sembra tutto chiaro. Semplice e atroce. In una città in cui tra gennaio e novembre 2009 sono state uccise 2300 persone, in cui gli omicidi in strade e luoghi pubblici sono quotidiani, in cui commandos armati hanno attaccato locali pubblici e centri di recupero per tossicodipendenti, bruciato negozi e attività, le “vittime collaterali”, il passante che muore per una “bala perdida”, per un proiettile vagante, sono drammaticamente frequenti.

Tutto questo è vero. Eppure c’è qualcosa che non torna. Tra queste “vittime collaterali” ci sono nomi come quelli di Gerardo González Guerrero, professore di psicologia, ammazzato nel dicembre 2008, e di Manuel Arroyo, professore di scienze sociali e fondatore della OPI, l’Organizzazione Popolare Indipendente, ucciso nel maggio scorso, che sono ben conosciuti tra i movimenti sociali che fervono, malgrado tutto, in una città che da lontano sembra solo violenza. E c’è anche Armando Rodríguez, giornalista del maggiore quotidiano locale, El Diario, ucciso dopo anni di minacce nel novembre 2008, per il suo lavoro scomodo e pericoloso: fare informazione onesta sui temi del crimine organizzato, dei femminicidi, della militarizzazione della città e delle violenze ad essa connesse.

E il pensiero che a Ciudad Juárez non si muore per caso fa capolino. Non si muore per caso (neanche) a Ciudad Juárez, soprattutto se sei attivista e se tu e i tuoi familiari avete ricevuto minacce. Marisela Ortíz vive sotto scorta da anni. Ma Nakar, sua figlia, e Jesús Alfredo, che era il compagno di vita e di lotte di Nakar, no.

Non si muore per caso (neanche) a Ciudad Juárez, soprattutto se il giorno prima dell’omicidio di Jesús Alfredo è stata rapita, stuprata e ammazzata Flor Alicia Gómez López, nipote di due attivisti di Chihuahua (capitale dell’omonimo stato di cui fa parte anche Ciudad Juárez), Eduardo Gómez e Alma Gómez Caballero, di un’altra importante ONG per la difesa dei diritti delle donne, impegnata da anni per avere giustizia per i femminicidi con Justicia para Nuestras Hijas.

Non si muore per caso (neanche) a Ciudad Juárez, tanto più se la stragrande maggioranza di questi crimini sono ancora oggi impuniti, dall’omicidio di Armando Rodríguez ai più di 500 femminicidi, dai migliaia di morti ammazzati nella guerra tra e contro il narcotraffico al femminicidio di Flor Alicia, che aveva 23 anni e lavorava in una piccola scuola materna nella selva di Temochi, nello stato di Guerrero.

È quello che denunciano da tempo le organizzazioni civili di Ciudad Juárez. È quello che gridavano gli studenti e i professori scesi in piazza dopo l’omicidio di Manuel Arroyo (nella foto). È quello che sostiene oggi María de la Luz Estrada, direttrice dell’ Osservatorio Cittadino Nazionale del Femminicidio. L’assassinio di Flor Alicia e di Jesús Alfredo, di Manuel Arroyo e di Armando Rodríguez, sono atti intimidatori. Farli passare come crimini legati all’insicurezza e alla violenza diffusa, leggerli separatamente l’uno dall’altro senza riconoscere il filo rosso che li lega significa impedirsi di riconoscere e denunciare quel processo di criminalizzazione della protesta sociale che è in corso da anni. Significa non avere più gli strumenti per comprendere le lotte e le repressioni che agitano il Messico sotto la coltre mortifera della guerra tra e contro il narcotraffico.

Non ho avuto la possibilità, o forse il coraggio, di chiamare Marisela e Nakar. Quando ci siamo salutate prima del mio ritorno in Italia, nel novembre 2008, Nakar e Jesús Alfredo si stavano per sposare. Dovevano scegliere il luogo per la loro festa, un giardino accogliente per i colorati e allegri balli messicani. Con che parole, un anno dopo, dall’altra parte dell’oceano, si può anche solo sfiorare un dolore che non riesco neanche a immaginare?